Potrebbe descriverci lo scenario che si vive in Afghanistan da quando si è instaurato il regime talebano, la condizione della popolazione e delle persone più a rischio?
La società afghana ha fatto un salto indietro, è tornata a quando i talebani vent’anni fa erano al governo.
La situazione della libertà e dei diritti è stata totalmente stravolta e con essa anche la situazione economica che è gravissima, con difficoltà legate al reperimento dei generi di prima necessità.
I talebani stanno attuando ritorsioni nei confronti di chi ha collaborato o svolto ruoli istituzionali con il governo precedente e soprattutto verso le donne che si sono ribellate al regime antidemocratico talebano.
In questo contesto siamo intervenuti con lo strumento dei corridoi umanitari grazie anche al contributo dell’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai.
Riceviamo tantissime richieste di aiuto, sia dall’Afghanistan che da fuori, in cui ci segnalano persone a rischio da salvare e accogliere qui in Italia grazie ai corridoi umanitari. Si tratta di persone che svolgono mestieri e attività tra le più disparate: da magistrate a giornaliste, a persone che semplicemente hanno collaborato con le forze occidentali. E con loro ovviamente anche le rispettive famiglie.
Quali sono le principali difficoltà per coloro che vogliono fuggire dal Paese? In questo contesto come si inserisce il progetto “Un corridoio per la libertà” realizzato da ARCI e finanziato tramite i fondi 8×1000 dell’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai?
La prima difficoltà è riuscire ad attraversare il Paese per raggiungere una frontiera senza farsi rintracciare dalle autorità del governo talebano.
Inoltre, le due frontiere che si potrebbero attraversare più facilmente ‒ si fa per dire ‒ sono quelle con il Pakistan e con l’Iran, ma le autorità di questi paesi non sono così disponibili a far entrare le persone.
Tant’è che in quasi tutti i casi ‒ almeno quelli di cui noi siamo a conoscenza ‒ chi scappa deve pagare la polizia di frontiera, sia quella afghana che quella iraniana/pakistana.
Il fatto di pagare non è comunque una garanzia. C’è la possibilità di essere riconsegnati al regime poiché questi paesi confinanti hanno dei legami con i talebani che sono anche presenti in alcune zone al proprio interno.
Lo scorso 4 novembre abbiamo firmato il protocollo con il governo italiano assieme ad altre organizzazioni e l’abbiamo firmato sulla base del presupposto che la nostra rete di circoli rifugio ‒ che già l’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai aveva finanziato nel 2021– si sarebbe resa disponibile ad accogliere le persone.
Parliamo della collaborazione che due anni fa l’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai ha realizzato con ARCI, sempre tramite i fondi 8×1000, per il progetto “Nessuno in strada ‒ Circoli rifugio”. In che modo i risultati raggiunti da quel progetto possono contribuire a quello in corso a sostegno del popolo afghano?
Per il progetto dei corridoi umanitari abbiamo utilizzato le risorse umane attivate sul territorio con la prima esperienza sostenuta dall’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai, la rete dei circoli rifugio e l’esperienza maturata. Abbiamo potuto dare maggiore certezza di risorse e di stabilità ai nostri circoli, impegnandoci ad accogliere le persone con i medesimi standard previsti per l’accoglienza dei richiedenti asilo e i profughi che arrivano in Italia.
Ogni circolo rifugio aveva già attivato sul territorio una rete di soggetti che contribuivano a sostenere le persone che avevano difficoltà a trovare un alloggio e si trovavano temporaneamente per strada, italiani o stranieri. Noi abbiamo dato loro una mano a uscire da quella condizione.
Questa prima esperienza ha attivato sui territori delle risorse umane, dei servizi collegati ai nostri circoli e una rete sociale che ci è utile adesso in questa nuova esperienza con le donne afghane.
Come buddisti della Soka Gakkai agiamo ogni giorno in difesa della dignità della vita, consapevoli che il dialogo riveste un ruolo cruciale per trasformare i princìpi che orientano le nostre vite e le nostre scelte. Nel corso di molti anni di attivismo, lei si è confrontato con molte persone dalle differenti vedute: come è riuscito a creare un dialogo costruttivo con “l’altro” in modo da arrivare a una visione condivisa che abbia sempre come priorità la dignità della vita?
Ho vissuto la giovinezza tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, un periodo in cui i movimenti sociali e politici avevano come focus principale la pace e il disarmo. Quindi la mia è una formazione pacifista in cui prevale l’idea che le persone unendosi possono porsi l’obiettivo di realizzare qualcosa assieme.
Sia che si trovino insieme casualmente o per scelta, possono sempre raggiungere attraverso il dialogo una mediazione tra le diverse posizioni. Una mediazione non al ribasso ma avanzata, che guarda sempre alla dignità della persona.
Questo è il metodo che abbiamo sperimentato per la prima volta col movimento pacifista in Italia e in Europa, un movimento pacifista internazionale. ARCI è una delle organizzazioni partecipanti a quel movimento, sia a livello territoriale che a livello nazionale, e che utilizza tuttora quel metodo.
Grazie agli appuntamenti internazionali noi frequentavamo i pacifisti degli altri Paesi europei, degli Stati Uniti, dell’Africa e dell’Oriente. Anche nel piccolo paese della Sicilia da cui provengo abbiamo realizzato un percorso come movimento pacifista, confrontandoci con persone che avevano idee diverse fino ad arrivare a organizzare anche incontri internazionali. Sapevamo che l’obiettivo finale era quello di raggiungere una mediazione avanzata, rispettando il parere di tutti, ricercando una soluzione unitaria con l’obiettivo della dignità della persona.
Questa era ed è stata la mia formazione ed è quello che penso di aver portato anche all’interno della mia esperienza in ARCI per i diritti e la tutela delle persone di origine straniera.
Il presidente della Soka Gakkai internazionale Daisaku Ikeda sostiene fortemente l’empowerment delle donne, affermando che questo è il secolo delle donne.
Recentemente le afghane sono scese in piazza per manifestare in difesa dei loro diritti mettendo a rischio la loro stessa vita.
Ci sono esempi di donne da cui è stato ispirato nel suo ruolo di protagonista in molte battaglie sociali?
Nella mia vita ho incontrato tante donne in politica e nel movimento pacifista, buona parte della mia formazione ne è stata influenzata.
L’emancipazione delle donne rappresenta un punto di svolta per tutto il pianeta, soprattutto in quei Paesi come l’Afghanistan o l’Iran, dove le strutture sociali obbligano le donne a essere sottoposte alla volontà degli uomini, qualunque sia il loro grado di istruzione, la loro appartenenza sociale o il loro livello economico.
Come occidentali o europei spesso diamo lezioni di democrazia. A mio avviso però l’emancipazione delle donne può nascere più dalla ribellione delle protagoniste e meno dalla scelta di altri soggetti esterni che ovviamente devono mettersi in discussione, in Europa come nei Paesi di cui parliamo.
Nel caso dei corridoi umanitari la priorità è salvare le donne e le persone LGBTQ+. Fuggendo da quella situazione si liberano, possono costruire una propria vita ed eventualmente ‒ se lo vogliono ‒ aiutare il proprio Paese ad andare verso la democrazia.
Finché rimarrà la condizione di soggezione delle donne in quei Paesi, non si potrà parlare di democrazia. È una mancanza di libertà totale.
Un esempio positivo di donna che mi ha ispirato è Luciana Castellina che adesso ha più di novant’anni e che considero un po’ la mia madrina. Lei ha svolto un ruolo cruciale nella politica italiana e internazionale, partecipando al movimento femminista e pacifista con esperienza di relazioni a 360 gradi con tutto il mondo della società civile e dei movimenti di liberazione, in Europa, in Africa, negli Stati Uniti e in Sudamerica.
Da lei ho certamente appreso tante cose, in particolare la coerenza tra il comportamento personale e la modalità con cui si gestiscono le relazioni in politica e nello spazio pubblico.