Proteggiamo le persone, non i confini

Educazione

Abbiamo intervistato Barbara Galmuzzi dell’Associazione Comitato 3 ottobre, in merito al progetto finanziato con i fondi 8x1000 dell’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai “Protect people, not borders", che ha come obiettivo quello di coinvolgere la comunità scolastica e le istituzioni europee per offrire opportunità di riflessione e approfondimento su temi quali l’accoglienza, la memoria, le migrazioni e l’integrazione culturale.

Come nasce la vostra organizzazione? Potete condividere alcuni passaggi salienti della sua costituzione e della sua missione?

Il 3 ottobre 2013, in un naufragio al largo delle coste di Lampedusa, hanno perso la vita 368 migranti. 
Il nostro attuale presidente Tareke Brhane, ormai cittadino italiano ma nato in Eritrea, si trovava proprio a Lampedusa come mediatore culturale. Lui il viaggio tra la Libia e Lampedusa l’aveva fatto per ben due volte.
Tareke vide morire 368 persone di nazionalità eritrea, accolse sia i sopravvissuti, sia i familiari che nei giorni successivi arrivarono a Lampedusa.
Fu una delle più grandi tragedie del Mediterraneo, l’isola si popolò di giornalisti che si chiesero il perché continuavano ad accadere questi naufragi, spesso nel silenzio più totale delle istituzioni e della stampa.
Una sera, proprio a Lampedusa, è nata l’Associazione Comitato 3 ottobre costituito da una parte più sociale fatta da mediatori culturali e linguistici e un’altra parte di giornalisti.
Nasce con l’obiettivo di approfondire un dialogo con le istituzioni e con i giornalisti stessi, e di coltivare la memoria di ciò che accade nel Mediterraneo raccontandola soprattutto alle nuove generazioni nelle scuole. Solo attraverso la conoscenza, la coltivazione della memoria e il dialogo si può migliorare la situazione del fenomeno migratorio.

In commemorazione del decimo anniversario del 3 ottobre 2013, siete stati invitati, a marzo 2023, presso il Parlamento europeo a parlare dei diritti dei migranti, delle migliaia di vittime ancora non identificate che hanno perso la vita nel Mediterraneo.

Il successo di quell’evento è stato riuscire a portare 350 studenti e studentesse dall’Italia e da altri paesi europei all’interno del Parlamento.
Tanti studenti visitano il parlamento ma è stata la prima volta che la sala principale ha visto la presenza di così tanti di loro (si entra solo se si è accreditati). Alcuni studenti hanno anche gestito una tavola rotonda. Dal punto di vista formativo, è stato importante trasmettergli che in quel luogo si prendono delle decisioni che ricadono sulla vita delle persone che migrano. Non si tratta di convincere nessuno della necessità di diventare attivisti del Comitato 3 ottobre ma dell’importanza di attivarsi nella propria vita in prima persona, perché anche se hai 16 anni sei un cittadino italiano ed europeo che porta sulle spalle una grande responsabilità.
Nel questionario che abbiamo somministrato a Bruxelles, l’80% dei ragazzi ha risposto che, al netto delle conoscenze acquisite, era stato importante aver capito la necessità di poter fare qualcosa. Avranno tempo di imparare cos’è il diritto internazionale umanitario dal punto di vista tecnico, per noi è importante far arrivare loro il messaggio che la morte di 30.000 persone nel Mediterraneo, è la morte di 30.000 persone che avevano una storia, un’identità. Loro ascoltando i testimoni possono identificare un essere umano con un nome, un cognome, una storia per superare la “spersonalizzazione” dei grandi numeri che spesso porta all’indifferenza.

In cosa consiste il progetto finanziato con i fondi 8×1000 della Soka Gakkai e quali sono i risultati che siete riusciti a realizzare? In che modo sono coinvolti studenti e studentesse?

Gli studenti e le studentesse sono coinvolti durante la Giornata della memoria e dell’accoglienza a Lampedusa.
Per loro è un momento immersivo in cui la mattina partecipano a laboratori formativi. A questa edizione ci saranno 28 laboratori, ad esempio uno con Emergency per ascoltare la testimonianza di come avviene un salvataggio in mare, uno con Medici Senza Frontiere per approfondire cosa comporta fare un viaggio oltre i confini, con la Croce Rossa per far vivere l’esperienza della perdita del contatto con i componenti del proprio nucleo durante la migrazione, e tanti altri.
Il pomeriggio vengono organizzate delle tavole rotonde. E la sera ci sono attività ricreative dove hanno l’occasione di conoscersi e condividere storie. È bellissimo vedere come ragazzi provenienti da scuole diverse da tutta Europa fanno amicizia tra di loro.
Ma non è finita qui, perché dopo questo evento inizia quello che noi chiamiamo “I semi di Lampedusa” perché metaforicamente a Lampedusa gettiamo un seme di cui poi ci prendiamo cura tutto l’anno.
Come lo facciamo? Tramite i nostri formatori organizzando dei laboratori didattici e l’attività peer to peer (tra pari), oppure portandoli in momenti formativi in Europa, a Rotterdam, Parigi, Bruxelles, Colonia, Francoforte, ecc.
Con i laboratori formativi siamo arrivati a coinvolgere oltre 7000 studenti e 280 insegnanti.
Senza i fondi dell’8×1000 dell’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai non avremmo realizzato praticamente nulla perché siamo una piccola realtà.
Se siamo riusciti l’anno scorso a organizzare Lampedusa e “I semi di Lampedusa” è stato grazie alla Soka Gakkai, ma non si tratta soltanto di una questione economica ma valoriale e di collaborazione.

Il vostro lavoro vi fa essere costantemente in contatto con la società, qual è la vostra percezione della società italiana rispetto al tema immigrazione e quali sono gli aspetti che vorreste vedere cambiati in questo senso?

Vorrei che cambiasse la narrazione che viene fatta del fenomeno migratorio.
Ad oggi, le narrazioni di chi muore nel Mediterraneo sembrano tutte uguali, praticamente sono incomprensibili.
Nessuno, ahimè, si prende più la briga di spiegare perché queste persone partono, da dove vengono. La disumanizzazione che viene fatta nei social, le semplificazioni…
A noi come Comitato piacerebbe dar voce a queste persone e smettere di usare la parola “migrante” come una grande categoria, rigida. Cambiare il lessico e le parole che usiamo sull’immigrazione, che trasmettono l’idea che ci siano esseri umani di serie B.
Se vogliamo creare un cambiamento nella società in questo senso, noi siamo convinti che sia necessario farlo partendo dai giovani.
A noi piacerebbe, e in parte lo facciamo, fare entrare nelle scuole i testimoni di questi viaggi, perché è importante ascoltare dalla voce di chi ha oltrepassato i confini, che può raccontare come questi confini sono fatti, le città che hanno visto, i fiumi, le muraglie, come sono fatti i guardiani, le carceri, i custodi, gli angeli che li hanno salvati, chi li ha accolti, i predoni che hanno rubato loro tutto, i covi in cui venivano tenuti e come sono fatti soprattutto i compagni di viaggio, quelli che a un certo punto tu chiami “compagno”.
Perché anche se ha attraversato l’inferno con te è quello che ti ha dato la possibilità di andare avanti. Ecco, a noi piacerebbe che nella scuola, oltre spiegare che cos’è la Convenzione di Ginevra, venisse data la voce a chi il viaggio l’ha fatto.

Quali altre azioni possiamo compiere per diffondere una visione della vita più rispettosa e accogliente?

Credo che sia necessario informarsi e una volta che si conosce, si può diventare una sorta di diffusore di motivazione.
Ci sono quelli che fanno gesti eroici, c’è chi salva vite in mare per cui ci vogliono determinate competenze. Ma c’è anche la possibilità che da cittadini comuni si possa fare la differenza usando la nostra voce e il nostro talento per promuovere la consapevolezza.
Posso andare a fare volontariato, posso venire a Lampedusa.
Io credo che si debba partire sempre da piccole azioni ma spesso sono quelle che fanno la differenza.
Certo, ci sarebbe da cambiare la politica securitaria sul fenomeno migratorio, la narrazione dei media, ma noi siamo convinti che lo si faccia partendo dal basso attraverso il passaparola, la conoscenza e il dar voce… in qualche modo dall’attivarsi per creare un mondo più accogliente e solidale.

Torna alle news