Noorjehan Abdul Majid è stata direttrice dell’ospedale centrale della città di Maputo (Mozambico). È una persona amata e stimata, considerata la madre di migliaia di bambini che ha fatto nascere liberi dal virus da madri sieropositive. Infatti, nel 2002, inizia a collaborare col programma DREAM della Comunità di Sant’Egidio, che introduce per la prima volta in Mozambico la terapia antiretrovirale dell’AIDS in forma gratuita.
Adesso Noorjehan Abdul Majid è responsabile clinico del programma DREAM.
Grazie ai fondi 8×1000 dell’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai, il progetto “DREAM: protezione per la popolazione vulnerabile di Beira” sostiene un intero centro sanitario polivalente a Beira, in Mozambico.
Come è nata la tua passione per questo lavoro e quali sono le maggiori difficoltà di lavorare in un paese come Beira?
Era il sogno di mio nonno. Durante un ricovero in ospedale fu curato da una donna medico, così quando tornò a casa espresse il desiderio che in futuro una delle sue nipoti potesse svolgere quel mestiere. Negli anni ‘80 nel mio paese le donne musulmane studiavano solo fino alle scuole elementari e dopo si concentravano nella cura della famiglia e della casa.
Una delle sue ultime richieste prima di morire fu che una nipote studiasse medicina per poter aiutare tante persone in difficoltà. All’epoca avevo dieci anni. Tra tutte le cugine sono l’unica che ha potuto studiare.
La maggiore difficoltà di lavorare qui a Beira, in Mozambico, è la forte presenza di flussi migratori che si verificano a causa della guerra nel nord del paese e anche in seguito ai disastri naturali dovuti al cambiamento climatico, cicloni e alluvioni, che distruggono tutto. Tante persone migrano perché dove vivono non c’è più modo di guadagnarsi da vivere o per curare la propria salute.
Con il progetto DREAM andiamo nei campi dei rifugiati per garantire un supporto sanitario, ma spesso troviamo solo donne e bambini perché gli uomini sono in città per cercare lavoro. Anche gli uomini avrebbero bisogno di cure per patologie che se non curate potrebbero trasformarsi in malattie croniche come l’ipertensione, il diabete, ecc.
Una parte del nostro lavoro è incentrata sul sensibilizzare le persone alla prevenzione della propria salute. Ad esempio, da due anni abbiamo creato un programma per curare l’epilessia: in Africa ci sono ancora molte credenze popolari legate a questa patologia che spesso non è considerata come tale e quindi non viene curata con i farmaci.
Per il quarto anno consecutivo l’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai, grazie ai fondi 8×1000, garantisce servizi sanitari gratuiti nel centro Dream polivalente, nel centro nutrizionale e nella clinica mobile. In cosa consiste il progetto Dream e cosa significa per te lavorare in questo programma?
Il programma DREAM è attivo dagli anni 2000. Inizialmente è nato per affrontare il grande problema dell’AIDS e per fornire medicinali alle persone che sviluppavano malattie croniche a seguito della malattia. Poi si è sviluppato un programma di cure più strutturato e integrato.
Un’altra parte importante del lavoro di DREAM riguarda la prevenzione del cancro alla cervice uterina che qui è una delle cause maggiori di morte per le donne.
L’orgoglio più grande di Dream è stata l’introduzione della cura gratuita per le donne sieropositive in gravidanza per fermare la trasmissione dell’HIV ai propri figli. È stato emozionante vedere i primi bambini nati negativi. Poter avere nuove generazioni nate sane è stato un grande traguardo.
Recentemente ho visto una delle bambine che abbiamo salvato grazie alla cura e mi sono commossa quando mi ha detto che sta studiando per diventare medico.
Mi sono laureata nel 1998 e hai iniziato a lavorare con DREAM nel 2001. Questo è un lavoro di prevenzione e di cura a 360°, con un approccio olistico, non riguarda soltanto il fornire delle medicine. Per me è una missione che svolgo con grande amore. Se mi guardo indietro mi sembra che il tempo sia volato. Quando lavori con passione è così.
Nel progetto DREAM abbiamo tanti attivisti e attiviste, volontari, persone che sono state malate e sono diventate “testimonial” del programma. Chi ha vissuto questa esperienza acquisisce maggiore autostima, cambia la propria vita a livello profondo ed è meraviglioso che adesso loro si facciano portavoce incoraggiando tante altre persone.
C’è una testimonianza nello specifico che desideri condividere?
Ci sono tante storie meravigliose, mi ricordo la prima volta che ho pianto durante una visita.
C’era una donna che veniva a curarsi portando con sé la propria bambina. Purtroppo la donna un giorno morì.
In clinica avevamo l’abitudine di fare un regalo di Natale alle bambine e io ho invitato la bambina a scegliere un regalo, lei mi guardò e mi disse: «Come regalo vorrei che tu facessi tornare mia madre». Sono scoppiata a piangere. Le dissi che poteva considerarmi sua madre. Mi chiama madre ancora oggi.
Questi sono gli aspetti difficili di questo lavoro che da fuori spesso non si vedono, perché si pensa che sia limitato soltanto alla cura con i medicinali.
Un’altra esperienza invece riguarda un ragazzo che veniva con i genitori, entrambi molto malati.
Il padre morì ed egli si trasferì in un altro villaggio con la madre. Dopo alcuni anni è tornato a cercarmi, chiedendomi se mi ricordassi di lui e raccontandomi che anche sua madre era morta. Espresse il desiderio di voler iniziare una cura, nonostante avesse ancora dodici anni. Iniziò la cura, poi ha studiato medicina con il desiderio di contribuire ad aiutare gli altri. Oggi lavora qui con noi ed è una persona eccezionale.
C’è un messaggio che vorresti condividere con i giovani per incoraggiarli ad aiutare le persone che soffrono?
Quando ho scelto la strada di medico avevo dieci anni, volevo aiutare le persone.
Nel mio percorso mi ritrovai a lavorare con l’HIV quando non esisteva una cura per questa malattia.
Potevamo solo sottoporre le persone al test e poi, se positivo, comunicare loro che erano malate, niente di più.
Grazie alla Comunità di Sant’Egidio è stato possibile introdurre una terapia antiretrovirale in Mozambico. Questo mi ha insegnato che c’è sempre la speranza di poter aiutare gli altri.
Ciò che vorrei dire soprattutto ai giovani è che dobbiamo sempre avere speranza.
Se tu dici: «Non ci riesco! Non riuscirò mai ad arrivare lì!», allora sicuramente non ci arriverai.
In passato ho lavorato in un ospedale dove c’era una stanza che chiamavano la “sala d’imbarco”: chiesi se quei pazienti si dovessero trasferire da qualche parte. Mi risposero che erano persone che sarebbero morte e quindi le lasciavano lì, dando per scontato che in breve tempo sarebbero partite per quel viaggio. Mi scoraggiavano a fare qualcosa per loro. Mi rifiutai, spiegando che avevo la responsabilità sulle mie spalle di aiutare e curare chi stava male. Ero un medico appena laureato e volevo curare tutti, ma in quel contesto non c’era la speranza.
Il messaggio che vorrei dare ai giovani è che quando ci troviamo davanti a un ostacolo dobbiamo guardare oltre il muro. Andare avanti, non scappare ma imparare a confrontarci con le situazioni perché c’è sempre una soluzione. Questo è ciò che ho imparato e che cerco di fare ancora oggi.
Quando gli altri mi dicono che è impossibile, io rispondo che è possibile.
Non smettiamo di prenderci cura delle persone, e non mi riferisco soltanto agli aspetti della salute.
Ci sono tanti anziani che si sentono soli e tanti bambini per strada abbandonati. Molti vengono da noi perché vogliono un po’ di compagnia.
Siamo tutti e tutte responsabili di prenderci cura di chi ha bisogno, non soltanto i medici, ma tutti noi.