Nelle annuali Proposte di Pace che il presidente Ikeda invia all’ONU dal 1983, viene sempre evidenziato il ruolo strategico delle Nazioni Unite. Esse, secondo Ikeda, devono essere rafforzate e diventare un vero “Parlamento dell’umanità”, dando voce alla società civile formata da persone comuni. Qual è il ruolo di UNHCR nel contesto delle Nazioni Unite?
Come agenzia delle Nazioni Unite l’UNHCR è un po’ particolare, in quanto è un’organizzazione radicata nel territorio, guidata dall’Assemblea Generale dell’ONU per coordinare e dare risposta ai bisogni di protezione dei rifugiati nel mondo, e anche delle persone apolidi e degli sfollati. Si pone l’obiettivo di stare vicino alle persone che hanno perso la protezione del proprio paese. Si tratta quindi di un’organizzazione umanitaria che cerca di dare risposte concrete.
A livello sociale, politico ed economico stiamo vivendo un periodo estremamente complesso: come descriverebbe la percezione che c’è in Italia rispetto ai rifugiati e alla loro situazione?
C’è la realtà, e poi c’è la percezione che si ha di essa. Ci sono più di 100 milioni di persone sfollate nel mondo, un numero enorme, in un periodo storico molto difficile dove vediamo nascere continuamente guerre e conflitti. Come conseguenza, sempre più persone sono costrette a lasciare il proprio Paese, o a lasciare le proprie terre e abitazioni.
Da sempre l’Italia è un paese dove le persone arrivano cercando protezione e una vita migliore. È un Paese accogliente e ultimamente ha mostrato una capacità di unirsi intorno ai rifugiati ucraini mai vista prima, non solo da parte delle famiglie che hanno aperto la propria casa e offerto il loro aiuto, ma da parte di tutta la società, anche del settore privato che si è fatto avanti per poter dare aiuti concreti, alimentari o anche finanziari, ecc.
Questa predisposizione ad aiutare l’altro è una risorsa che dobbiamo continuare a coltivare, senza permettere che questi “obiettivi fragili” vengano strumentalizzati a livello politico per raccogliere voti.
Quello dell’integrazione è un obiettivo fondamentale nel nuovo percorso di vita dei rifugiati, eppure tuttora difficilissimo da raggiungere. In questo contesto si inserisce il progetto di Community Matching. Qual è l’idea alla base di questo progetto e quali gli obiettivi?
C’è una percezione diffusa di un numero enorme di persone che arrivano cercando una vita migliore e che, in un certo senso, può sembrare pesino sulla nostra società, ma la realtà è completamente diversa: molti di loro arrivano con una grande voglia di fare, con una resilienza fortissima, e sicuramente con il desiderio di ricostruire la propria vita. Quando arrivano in Italia, però, il processo di integrazione non è sempre facile perché per realizzarsi richiede la creazione di connessioni sociali inclusive. L’integrazione è un processo complesso in ogni parte del mondo, ma nel nostro Paese in modo particolare poiché è burocraticamente complicato.
Per questo abbiamo sviluppato un progetto insieme a vari partner, tra cui la Soka Gakkai, per facilitare l’inclusione dei rifugiati nella nostra società.
Abbiamo ritenuto importante lavorare non solo sulle questioni pratiche, come l’accesso ai documenti e al mondo del lavoro, ma anche sulla comprensione reciproca, sia da parte dello straniero che arriva in Italia, sia da parte di chi li accoglie.
Abbiamo quindi pensato di mettere a disposizione dei rifugiati dei volontari per aiutarli a capire il nostro Paese, come porsi in certe situazioni, come fare amicizia, trovare lavoro, ecc. A questo processo corrisponde ed è altrettanto importante, quello del volontario italiano che comprende meglio cosa significa arrivare in un Paese per ricominciare tutto da capo, qual è il percorso di un rifugiato e le sofferenze che lo accompagnano: un bagaglio di memorie dolorose, ma anche una propria cultura da trasmettere e tante storie da raccontare.
Alla base del progetto c’è l’idea di combattere la paura dell’altro dando vita a un percorso che arricchisce entrambi, e il legame che si crea è un antidoto al razzismo e alla xenofobia.
Ci sono tanti volontari che si sono fatti avanti e siamo molto felici di constatare i risultati concreti del progetto che, attraverso la creazione di questi legami, sta favorendo un processo di integrazione molto più veloce ed efficace. Sicuramente è una strada che porterà il nostro Paese a essere più accogliente e inclusivo.
Un punto di forza del progetto è quello di porre rifugiato e volontario completamente alla pari all’interno della relazione, tanto da essere definiti entrambi con lo stesso termine inglese (buddy).
Ciò è perfettamente in linea con la visione buddista della vita basata sull’interconnessione e sulla consapevolezza del valore e delle risorse insite in ogni individuo.
Può approfondire questo aspetto?
In tanti Paesi del mondo e non solamente in Italia, ho visto dei percorsi in cui la condivisione delle difficoltà, la condivisione di un percorso di crescita da parte di due famiglie o persone, diventava una forza per tutte e due: sia del rifugiato, sia di chi accoglie.
Il Community Matching è uno strumento molto importante. Non si tratta solo di aiutare, di accogliere ma di comprendere profondamente l’altro. Infatti se non si capisce la persona che si ha davanti è molto difficile provare empatia, e senza conoscere la sua situazione è facile arrivare a conclusioni affrettate.
Vorrei ringraziare la Soka Gakkai per tutto il supporto che sta dando a UNHCR e alle organizzazioni con cui lavoriamo nel portare avanti questo progetto, che spero possa essere ampliato sempre di più, per promuovere un concetto di accoglienza diverso dal semplice aiuto materiale che possiamo dare ai rifugiati quando arrivano nel nostro paese.
I giovani di oggi da una parte sono molto sensibili a questi temi, dall’altra non sentono di poter davvero influenzare il cambiamento che vorrebbero. C’è qualcosa che vorrebbe trasmettere loro per incoraggiarli a vincere l’inerzia, a non perdere la speranza rispetto al cambiamento che ognuno di loro può apportare nel mondo?
L’inerzia non è una cosa che possiamo permetterci in un mondo così complesso in cui così tanti giovani, oggi, cercano di fuggire da guerre, violenze e persecuzioni.
I giovani in Italia, in Europa, nei paesi dove c’è un minimo di stabilità e un minimo di pace hanno anche la responsabilità di condividere il loro percorso, e progetti come Community Matching sicuramente sono un modo concreto di poter essere parti integranti di una soluzione che non può semplicemente essere messa in mano ai governi, agli Stati, alle Nazioni Unite.
Ognuno di noi può fare qualcosa per facilitare l’inclusione dei rifugiati.
Bisogna cercare di capire come rispondere alle necessità di coloro che oggi hanno bisogno di essere aiutati e supportati, di avere qualcuno che li faccia sentire meno soli.
Lei lavora da tanti anni in prima linea nella protezione delle persone. Cosa significa per lei fare questo lavoro?
Questo non è un lavoro, è una missione, in quanto richiede moltissimi sacrifici ed espone a una realtà molto complessa da gestire.
Se lo fai è perché hai deciso di voler dare un piccolo contributo a questo mondo in cui, oggi più di ieri, ci sono tante, troppe persone che stanno soffrendo.
Ho avuto la fortuna di cominciare a lavorare a UNHCR in un momento storico in cui i conflitti si risolvevano e le persone tornavano a casa, e il mio ruolo era proprio quello di aiutarli a tornare a casa. Non c’è niente di più bello che vedere bambini e donne che ritornano nei loro villaggi dove ricominciano la loro vita.
Oggi purtroppo la possibilità di riportare la gente a casa non c’è più. Abbiamo sempre più emergenze, situazioni estremamente cruente da gestire e governi sempre più difficili con cui interloquire.
È un lavoro complesso ma profondamente gratificante quando ti rendi conto che puoi mettere a disposizione le tue competenze per contribuire in modo concreto a migliorare la vita delle persone. È un lavoro quasi impossibile da sostenere se manca questa passione, questa consapevolezza della propria missione.