Il progetto Dream è il risultato della collaborazione tra tante diverse organizzazioni religiose e non. Qual è secondo lei la chiave per far sì che questo sia possibile e funzioni?
L’esperienza del programma Dream nasce dalla Comunità di Sant’Egidio, quindi dall’esperienza di essere amici di tutti e di non avere nemici.
Collaborare con i fedeli di altre religioni è per noi un arricchimento. Abbiamo vissuto concretamente cosa significa lavorare insieme ad altre confessioni, soprattutto per alcuni grandi temi, come la pace e la salvezza delle persone in Africa.
Il lavoro preziosissimo che abbiamo fatto quest’anno insieme a voi della Soka Gakkai è un’ennesima dimostrazione.
Un altro esempio concreto è il fatto che la nostra responsabile clinica di tutto il programma Dream in Mozambico è una dottoressa musulmana. La collaborazione a Beira è la prova di come persone di fede profonda come i buddisti della Soka Gakkai, come noi cristiani di Sant’Egidio, hanno capito che insieme si può manifestare la forza del bene, in grado di cambiare il mondo.
Il titolo Dream allude proprio al sogno profondo di cambiare il mondo.
Abbiamo il desiderio rivoluzionario di renderlo migliore. Ma questo sogno si può realizzare solo se siamo insieme, uniti.
Ciò che avete costruito è straordinario, è una manifestazione della lotta che esiste tra la rassegnazione e la speranza nella nostra vita. Quali sono le difficoltà maggiori che avete incontrato in tutti questi anni?
Quando abbiamo cominciato ci hanno preso per “folli”. Intorno al 2000, grazie alle comunità di Sant’Egidio in Africa abbiamo capito che c’era un grande problema con l’Aids che stava decimando le società africane. Come credenti ci siamo detti che non potevamo farci fermare o rassegnarci davanti a questo problema.
Il progetto Dream è una lotta continua contro la rassegnazione, perché davanti al male non è vero che non si può fare nulla. Insieme si può fare molto e noi da subito abbiamo iniziato a proporre la possibilità di portare in Africa soluzioni già sperimentate in Occidente.
Siamo partiti da un problema etico e di giustizia: perché in Africa si deve morire per una malattia che invece è curabile?
Inizialmente, quando abbiamo sottoposto questo progetto alle grandi agenzie internazionali, siamo stati accolti con una lista di no: «Non ci sono medici, non ci sono soldi, non ci sono farmaci, non ci sono laboratori…».
Allora ci siamo detti: «Cominciamo a lavorare per trovare risposte positive, per demolire questo senso di rassegnazione».
Nel 2002 abbiamo iniziato a distribuire farmaci e a curare le persone.
I risultati ottenuti fin da subito con il programma Dream ci hanno travolto, la gente era entusiasta!
Siamo stati testimoni di storie di “resurrezione”. La tripla terapia era già presente in Europa dal 1995 e la conoscevamo.
Ma la novità era la concretizzazione di questa lotta contro rassegnazione. Era poter dire: «Ok, se in Africa non è possibile, se in Africa non ci sono i mezzi, non ci sono laboratori, non c’è personale, allora lavoriamo insieme, uniamoci!».
Abbiamo dimostrato che tutto è possibile, per chi ha la fede.
Parliamo del Centro che è finanziato interamente dall’8×1000 dell’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai, in che cosa consiste il contributo dell’Istituto in termini di persone e di risultati raggiunti?
La Soka Gakkai ci ha permesso di continuare questo programma di grande importanza.
In tutta la città di Beira abbiamo in cura oltre 11.000 persone malate di HIV, è un grande impegno e la possibilità che abbiamo ricevuto grazie al contributo decisivo della Soka Gakkai, che supporta il programma a Beira, ci ha permesso di salvare tantissime persone, soprattutto mamme in gravidanza sieropositive che possono così evitare di trasmettere la malattia ai propri bambini.
A Beira ci sono due grandi centri. Il primo è un centro polivalente in cui ci sono sia un laboratorio di biologia molecolare, sia un centro clinico dove accanto alla tradizionale cura dell’HIV offriamo gratuitamente la cura e la prevenzione del cancro della cervice uterina, che purtroppo nelle donne sieropositive è molto frequente.
In Africa non ci sono programmi nazionali di screening e questo servizio riduce drasticamente la possibilità di morire di questo cancro, che è la prima causa di morte per tumore nelle donne in Africa.
Accanto alla struttura polivalente c’è un bellissimo Centro nutrizionale, dove ogni giorno vengono a mangiare più di 700 bambini.
Dopo il ciclone che ha distrutto Beira nel 2019, i due centri sono diventati una roccaforte in cui tanta gente si è rifugiata e abbiamo iniziato a dare da mangiare agli anziani, ai bambini, alle famiglie.
Il centro è un punto di riferimento per tutta la regione, perché da qui sono stati organizzati anche programmi per andare verso i campi profughi che sono stati creati dopo il ciclone.
La Soka Gakkai ha avuto l’intuizione, secondo me profonda, dell’importanza vitale di intervenire in una regione così povera e colpita dal ciclone. Beira è una bellissima città sul mare che purtroppo ha la più alta percentuale di HIV di tutto il paese.
Poter operare in questa città grazie al vostro contributo e alla presenza del programma Dream da tanti anni, ha reso possibile migliorare le condizioni della città e sostenere la popolazione più debole.
Le donne in Africa sono il pilastro della società, anche se spesso vengono considerate le persone meno importanti.
Intervenire sulla donna per prevenire la trasmissione delle infezioni fa sperare di poter avere una nuova generazione di bambini e bambine sani e di far ripartire la società, una società migliore.
Il maestro Ikeda afferma che l’Africa è il continente del XXI secolo, un continente che deve manifestare il suo potenziale e trasformare il corso della storia a partire dalla sua stessa trasformazione. Come è cambiato il contesto africano, in particolare in relazione alla natura delle malattie? E che impatto ha avuto il progetto Dream come campagna di informazione e di prevenzione?
Spesso si ha un’idea un po’ stereotipata dell’Africa come un continente che va piano e in cui non ci sono cambiamenti. L’Africa invece è un continente che sta cambiando velocemente.
Intervenire in Africa equivale a un investimento per il futuro, per creare migliori possibilità in termini di qualità della vita e di democratizzazione delle società. Certo, l’Africa è un continente che va accompagnato e aiutato. Ma non sono mai stati investimenti persi quelli che abbiamo fatto.
A volte si pensa che le donazioni e i progetti in Africa siano come dei buchi neri dove uno versa dei soldi e non si sa dove vadano a finire.
Al contrario, quest’anno festeggiamo i vent’anni del progetto e stiamo assaporando il frutto del lungo lavoro fatto. Come ogni investimento, anche questi interventi necessitano di pazienza. Così oggi abbiamo una struttura, ma il vero “ritorno” del nostro investimento è rappresentato dai nostri amici africani che lavorano con noi: sono loro la vera forza, i veri responsabili del programma Dream. Sono persone che amano rimanere nel proprio paese e lavorano per migliorarlo.
Lei ha dedicato la vita a coordinare progetti di questo tipo. C’è un’esperienza particolarmente significativa, che le è rimasta nel cuore?
Questo programma ha dato compimento ai miei sogni giovanili, essendo medico mi piaceva mettermi a disposizione degli altri.
Uno dei ricordi più belli è stato poter comunicare alle donne che avevano concluso le cure di prevenzione, che avevano dato alla luce dei bambini negativi all’HIV. Potete immaginare l’emozione di vedere queste donne ricevere una notizia che ti cambia completamente la vita. È stata una gioia immensa.
Poter avere nuove generazioni di bambini e bambine nati sani per noi è un grande traguardo.
I risultati del progetto sono enormi anche a livello numerico, e questo ci ha dato coraggio.
Trasmettiamo al mondo il messaggio che insieme possiamo contribuire a migliorare la vita degli altri.
Mai lasciar spazio alla rassegnazione. Mai rassegnarci di fronte alla morte!
Dobbiamo trasmettere ai giovani questo messaggio di speranza, perché niente è impossibile.
Come dice Andrea Riccardi, fondatore di Sant’Egidio: «Tutto può cambiare».